Speziale e Medicina
Colori, cosmesi, medicina e cucina:
importanza e applicazioni di erbe e spezie
di Gigliola Gualco
INDICE
La Medicina nel Medioevo
- Aglio
- Salvia
- Basilico
- Rosmarino
- Timo
- Menta
- Alloro
- Maggiorana
- Lavanda
- Melissa
- Ortica
- Tarassaco
- Malva
- Altea
- Camomilla
- Iperico
- Fieno Greco
- Pepe Cubebe
- Pepe Nero
- Zenzero
- Cannella
- Chiodi di Garofano
- Cumino
- Coriandolo
- Noce Moscata
- Zafferano
- Galanga
- Grani del paradiso
LA MEDICINA DEL MEDIOEVO
Secondo una comune vulgata la medicina medievale era stregonesca, con strani intrugli, tipo code di rospo, carne di serpente, in realtà era tutt’altro. In Italia, grazie all’influsso del cristianesimo la medicina della civiltà greco-latina non venne dimenticata, ma rinvigorita da nuove scuole di pensiero.
Il medioevo oggi non è più considerato dagli studiosi un’epoca di oscurità, ma piuttosto un periodo di grandi fermenti e di processi creativi e anche la medicina ne fa parte. Il nostro mondo ha ereditato dalla società cristiano medievale la concezione della medicina come assistenza alla collettività, la nascita dell’ospedale.
Scrive lo storico tedesco Heinrich Schippergers nel suo Il giardino della salute:
La medicina medievale… non deve essere intesa nella moderna accezione del termine, ma non va neanche confusa con le tecniche empiriche di una medicina popolare antiquata, ci troviamo infatti di fronte ad un sistema organico che abbraccia tutti gli aspetti dell’uomo sano, malato e da guarire.
La medicina preventiva del passato consisteva nel saper condurre una vita sana, un sano regime di vita. Nel pensiero di Tommaso d’Aquino l’esser sani non è un possesso o una condizione, ma un habitus. La salute secondo il simbolismo medievale è un sentiero che si forma nel memento in cui si percorre.
Arnaldo di Villanova medico e teologo catalano, vissuto tra il XII e il XIII secolo, scriveva:
Dio Onnipotente ha creato la medicina come una scienza globale che deve servire all’uomo nella sua totalità. Essa non è solo un mezzo per conservare la salute, ma anche uno strumento per perfezionare la nostra vita. I rimedi non sono solo al servizio dei bisogni del corpo ma anche della formazione spirituale. Tutto viene in soccorso della infermità sia fisica che psichica. E così la medicina terrena diventa una via verso il cielo.
Nel mondo medievale l’uomo non è mai raffigurato come il padrone della natura, ma piuttosto come un giardiniere, come colui a cui è stato affidato un giardino che deve procurare gioia a Dio.
Questa concezione dell’uomo medievale e della medicina, si trova nell’opera di Ildegarda di Bingen, donna, monaca, una delle più grandi studiose di scienze mediche mai esistita. Ildegarda nasce in Renania nel 1098 da una famiglia nobile, viene inviata in convento ancora giovane, dove resterà tutta la vita. Ha lasciato numerose opere teologiche, filosofiche, naturalistiche e mediche. Era una donna profondamente medievale ed espresse la sua epoca anche nel campo della medicina. Le tecniche mediche usate da Ildegarda sono “strumenti che bisogna saper utilizzare come le piante”, infatti lei è una delle più grandi erboriste della storia.
Furono molto importanti per la rinascita della medicina i monasteri, con il mantenimento della conoscenza attraverso la copiatura di codici e testi medici da parte degli amanuensi.
La Regola Benedettina, la più importante regola monastica dell’occidente, al capitolo 36, dice che l’impegno più grande per il monaco è quello di servire gli infermi, per questo i primi ospedali nacquero proprio dagli ordini monastici.
A partire dai secoli XI e XII, con il fiorire delle città e degli spostamenti dovuti al commercio, ai pellegrinaggi, alle crociate, furono creati ospedali lungo le grandi vie di comunicazione, dove si assistevano i pellegrini ammalati.
Nei monasteri i monaci coltivavano le erbe mediche, i «semplici» come venivano chiamate la salvia, l’aneto, timo, rosmarino, lavanda, menta.
Si registra che il Monastero Benedettino di San Gallo nell’820, oltre al giardino dove erano coltivate le erbe mediche, aveva 6 camere per malati, 1 farmacia e alloggio per i medici.
Le erbe si mescolavano con vino, birra latte, o miele. Altre piante usate comunemente erano: avena, iperico, altea officinalis, malva, liquirizia, valeriana, camomilla.
La Scuola Medica Salernitana, dove si fusero la tradizione medica greco-latina e quella araba ed ebraica, fu la prima e più importante istituzione medica d’Europa all’inizio del Medioevo, accolse anche molte donne nella pratica e nell’insegnamento della medicina, le “mulieres Salernitanae”, donne esperte in medicina che preparavano cosmetici per le donne della nobiltà.
Sulle mulieres Salernitane, tra il XIII e il XIV secolo, circolavano, però, voci deplorevoli, le si credeva più ciarlatane che scienziate, poiché il famoso medico e scienziato spagnolo Arnaldo da Villanova attribuiva alle levatrici di Salerno la pratica di somministrare alla donna, al momento del parto, una pozione contenente tre granelli di pepe, accompagnando la recita del Pater noster con una misteriosa formula magica:
Binomie lamion lamium azerai vaccina deus deus sabaoth
Benedictus qui venit in nomine Domini, osanna in excelsis
Nonostante questo, la loro fama accrebbe. Ma la più famosa era Trotula, conosciuta anche oltr’alpe, fu la prima donna medico della storia. Nacque a Salerno dopo l’anno 1000 da una nobile famiglia. Sposa del celebre medico Giovanni Plateario il vecchio, ebbe due figli: Giovanni il giovane e Matteo, famosi nella Scuola Salernitana come “magistri Platearii”. Trotula pur non avendo il diritto di fregiarsi del nome accademico di “magistra”, per le sue competenze e capacità e la stima popolare che aveva, era la massima autorità in problemi di salute, igiene e bellezza femminile e operò nella Scuola Salernitana.
Rodolfo Malacorona, nobile normanno che aveva studiato medicina in Francia, giunto in visita a Salerno nel 1059, “non trovò alcuno che fosse in grado di tenergli testa nella scienza medica tranne una nobildonna assai colta”, da Storia Ecclesiastica del monaco normanno Orderico Vitale (III, pp. 28 e 76 Chibnall, vol. II).
Trotula era un’autorità indiscussa in disturbi e malattie femminili e cosmesi; sottolineò l’importanza dell’igiene, del controllo delle nascite, dei metodi per rendere il parto meno doloroso, ed ebbe anche un’intuizione avanzata: che l’infertilità potesse dipendere anche dall’uomo. Considerava importante la prevenzione e l’anamnesi al fine di individuare la giusta terapia ed evitare l’intervento chirurgico, spesso erroneamente prospettato, o attuato, dai suoi colleghi maschi, come si evidenzia dalla lettura del passo seguente:
…Poiché, infatti, si doveva praticare un’incisione a una ragazza che, appunto per un gonfiore del genere, minacciava una lacerazione, Trotula, dopo averla visitata, rimase assai stupita… La fece venire dunque a casa sua per scoprire in un luogo appartato la causa del disturbo… Avendo individuato che il dolore non era causato da una lacerazione o da un ingrossamento dell’utero, ma dal gonfiore, le fece preparare un bagno con un infuso di malva e paritaria, ve la fece entrare e le massaggiò la parte più volte e assai dolcemente per ammorbidire. La fece restare a lungo nel bagno e, quando ne uscì, le preparò un impiastro di succo di tasso barbasso, di rapa selvatica e di farina d’orzo e lo applicò ben caldo per far sparire il gonfiore. Quindi le prescrisse un secondo bagno eguale al precedente e la ragazza guarì
Oltre a Trotula furono famose Abella, che scrisse due trattati (Sulla bile nera – Sulla natura del seme umano), Rebecca Guarna autrice di Sulle febbri, sulle orine e sull’embrione, Mercuriade (forse uno pseudonimo) che scrisse Sulle crisi, Sulla peste, Sulla cura delle ferite e Sugli unguenti, Francesca da Roma, autorizzata dal Duca Carlo di Calabria nel 1321 ad esercitare la chirurgia e Costanza Calenda che grazie a suo padre studiò medicina all’università di Napoli , forse nella prima metà del XV sec.
OLII ESSENZIALI
Civiltà come quella indiana e cinese usavano gli olii essenziali per curare le malattie, per profumare il corpo e gli ambienti e per le cerimonie religiose a scopo propiziatorio.
Nell’antico Egitto la conoscenza di questa tecnica aveva raggiunto livelli altissimi, tanto che le bende avvolte attorno alle mummie emanano profumi a distanza di 3000 anni. Si ritiene che i sacerdoti egizi, depositari di queste conoscenze, procedessero all’estrazione di oli essenziali mediante macerazione in acqua esposta al sole; mettevano in vasi di argilla erbe e fiori coperti di acqua e chiudevano il vaso con panni di lana. Con il calore, l’essenza, essendo di natura volatile, impregnava il panno di lana che spremuto dava l’olio essenziale.
La nostra civiltà occidentale deve la conoscenza delle essenza all’antica Grecia, che a sua volta imparò dagli egizi. Anche i romani usavano essenze per i loro bagni e per i massaggi.
Gli arabi erano anche loro esperti di profumi ed essenze, e il medico Avicenna mise a punto un metodo di distillazione non molto diverso da quello attuale.
Nel 2002 è stata scoperta a Cipro, dall’istituto per la tecnologia applicata ai beni culturali del CNR, la più grande fabbrica di profumi del mediterraneo (rosmarino, origano, alloro, mirto, cinnamo, prezzemolo, mandorle amare, camomilla, anice) risalente al 2000 a. c.. La profumeria era situata a Pyrgos Mavroraki, accanto a un grande frantoio; l’olio prodotto in quantità industriali era venduto nell’isola e nel mediterraneo in giare da 500 lt, ma una buona porzione era destinata ai belletti e unguenti ricavati dalla macerazione di erbe e piante. Ricostruito da ricercatori del CNR un modello scala 1:2 della fabbrica, per una mostra svoltasi nel 2006. A testimoniare il funzionamento della lavorazione sono cinque macine di andesite, quattro grandi bacili per la preparazione delle essenze e 14 fosse intonacate ancora colme di ceneri e carboni, dove si sono trovate altrettante brocche contenenti olio d’oliva e le essenze in infusione. All’esterno portaprofumi erano riempiti con imbuti di terracotta e piccoli attingitoi per il dosaggio, mentre altri vasi contenevano le essenze di base. Anche grandi vasi dal lungo becco laterale, la cui forma ricalca e precorre quelle delle teste degli alambicchi utilizzati in periodo storico in Grecia e nel mondo arabo per l’estrazione degli oli profumati. La stessa tipologia di utensile richiama il distillatore conservato nel museo di Taxila in Pakistan, proveniente dagli scavi di Mohendijo Daro e datato al III millennio a.c.
Tale oggetto, riconosciuto dal prof. Paolo Rovesti nel 1975, è ritenuto il più antico sistema distillatorio del mondo.
L’olio aromatico serviva a rendere più morbida e profumata la fibra di lana al momento della tessitura, altra attività che si svolgeva nella zona, dove si produceva anche olio, vino, farmaci e tessuti di lana e seta.
La struttura di ca. 4000 mq. fu distrutta da un terremoto nel 1850 a.c.
Di olio d’oliva profumate al rosmarino sono imbevute fuseruole usate per tessere la lana caprina e nasconderne l’odore non gradito. Sono state rinvenute tracce di farmaci in diversi contenitori.
Tra i ritrovamenti più interessanti un grande bacile incrostato di resine con oppio e vino, una ciotola con scamonee, un vasetto contenente efedrina, è stato trovato un akros zoomorfo contenente chinolina mescolata ad essenza di vaniglia.
GLI SPEZIALI
Gli speziali del medioevo sono gli odierni farmacisti. Lo speziale era un maestro preparatore di medicine. La sua arte era suddivisa in quattro punti importanti:
- la conoscenza dei medicamenti semplici, di origine minerale, vegetale o animale
- la conoscenza delle proprietà curative
- la loro raccolta, conservazione e preparazione
- la composizione, cioè l’arte di mescolare i medicamenti semplici per ottenere i medicinali e la loro conservazione corretta fino al momento dell’utilizzo.
Nelle loro botteghe vendevano le erbe, le droghe e spezie necessarie alla preparazione dei medicinali. Le spezie erano usate anche per scopi alimentari, vendevano anche profumi, essenze, i colori base per i tintori e pittori, cera per le candele, sapone, spago, carta, inchiostro.
Dalla vendita di tutte queste merci ne derivava grande prosperità economica ed era considerato uno dei mestieri più redditizi.
LE ERBE OFFICINALI
AGLIO
La ricerca scientifica moderna ha dimostrato la validità dell’aglio, le sue proprietà riconosciute sono innumerevoli. Nel 1858 Pasteur ne ha individuato le proprietà antibiotiche.
Il riferimento più antico lo troviamo in alcuni documenti in sanscrito anche se, la prima citazione certa, si trova nel Codex Ebers (1550 a.C.) un papiro egiziano lungo venti metri che contiene, oltre a varie diagnosi alcune centinaia di formule terapeutiche. L’aglio viene proposto in una ventina di queste formule come rimedio efficace contro il mal di testa, le punture degli insetti e per lenire i dolori.
In medicina gli Assiri lo usavano come antibiotico nelle estrazioni dentarie.
In Grecia, Ippocrate di Cos (460-377 a.C.), il più grande medico dell’antichità che basò le sue teorie sulla osservazione dei fatti e Dioscoride, raccomandano in più occasioni di usare l’aglio per le sue qualità medicinali, ferite, infezioni e problemi cardiaci.
Anche Plinio il Vecchio, nella Roma del I secolo dopo Cristo, nella sua Historia Naturalis, ne indica vari usi terapeutici e non è un mistero che i legionari romani usavano l’aglio abitualmente come vermifugo, e per combattere varie malattie infettive.
Anche la Scuola Salernitana lo consigliava come antisettico e utile contro i veleni.
L’aglio da sempre condivide con le cipolle e il porro la rinomanza di potente antisettico e di antidoto contro gli avvelenamenti, ma anche di alimento da consumare con prudenza per i problemi relativi all’alitosi, infatti la medicina araba consiglia di bere vino aromatizzato o di masticare aghi di pino, dopo aver mangiato dell’aglio.
La cucina coloniale di Bisanzio, secondo il commediografo Difilo (IV sec. a.c.), si impernia sulla triade aglio-assenzio-sale, efficace rimedio contro l’eccesso di flemma dovuto dall’abituale consumo di pesce. L’aglio, infatti, di natura calda e secca, per le sue virtù di incidere gli umori densi e viscosi, secondo la medicina antica, giova alle persone di complessione fredda e umida (i flemmatici), mentre i collerici se ne devono astenere.
E’ un buon diuretico, un eccellente vermifugo, un disinfettante polmonare ed un efficace contraveleno, che si raccomanda di cuocere sempre insieme ai funghi… «et questo si fa perché da natura sono velenosi» (Arnaldo da Villanova 1235-1312); tra le «cosse da usare cottidiane» in tempo di peste, Savonarola raccomanda ai poveri che non si possono permettere antidoti, che «manzi ogni zorno inanti che da casa escano uno spigo d’ayo bono».
Il suo utilizzo in tutti i tempi, risulta circoscritto alle popolazioni rurali e a tutti coloro che fanno lavori più pesanti. Siamo già a conoscenza degli schiavi egizi, usato per prevenire le malattie, ma altre testimonianze additano i carrettieri traci del XV secolo che stemperano l’aglio pestato nel latte acido, o ai marinai «quelli che menano i remi» (Pisanelli 1640) ai quali serve da antisettico. Secondo Senofonte i greci facevano inghiottire ai galli teste d’aglio prima dei combattimenti, perché considerato eccitante.
L’autore medievale del De viribus Herbarum, Odone di Meung (XI sec.), ne descrive l’utilizzo per affezioni polmonari, asma e itterizia, impacchi per il mal di testa se unito alle fave, rimedio per il mal d’orecchio se mischiato al grasso d’oca.
Contro la peste era uno degli ingredienti del famoso aceto dei 4 ladri.
Nella cucina medievale, l’aglio si metteva a cuocere con carni d’agnello, oche e anatre e in alcune salse come l’agliata e la salsa verde.
Nelle superstizioni popolari, nel medioevo, le piante che svettano verso l’alto erano considerate nobili, mentre quelle che crescevano sottoterra erano ritenute volgari e spesso sotto l’influenza del diavolo. Per la sua caratteristica bulbosa, l’aglio è stato associato alla terra e soprattutto al mondo dei morti; quindi i greci lo offrivano alla dea Ecate, gli egizi lo collegavano ad Osiride. Ma era usato anche come protezione nei confronti delle streghe che la notte di S.Giovanni volavano verso il sabba per incontrare il diavolo.
Nell’antica grecia le levatrici appendevano teste d’aglio nelle stanze delle partorienti per difendere il nascituro dal malocchio e dalle malattie. Allo stesso scopo in Estonia si regalavano amuleti con questa pianta ai battesimi e spicchi d’aglio venivano messi sotto i guanciali dei lattanti per proteggerli da demoni e streghe.
I romani se ne servivano per propiziarsi gli Dei dei morti e i soldati greci usavano metterlo in sacchettini per proteggersi dalla sfortuna. In Romania, sempre come protettivo si metteva nelle stalle o, come vuole la tradizione, si metteva nella bocca dei morti che avevano fama di essere vampiri.
In medicina gli Assiri lo usavano come antibiotico nelle estrazioni dentarie. Plinio lo consigliava per una serie di malattie come la raucedine, dolore di denti, mal d’orecchi, disturbi intestinali nonchè contro serpi e scorpioni o per guarire dai morsi dei topi. Anche la Scuola Salernitana lo consigliava come antisettico e utile contro i veleni.
Durante la prima guerra mondiale, i medici delle armate francesi, inglesi e russe, trattavano le ferite infette dei soldati con succo d’aglio per il suo potere disinfettante; mentre, nella 2° guerra mondiale, i medici russi, anche se la penicillina era già stata scoperta, continuarono ad usare l’aglio e per questo venne chiamato ”la penicillina russa”.
Ai nostri giorni, le sue proprietà terapeutiche sono state riconosciute. E’ antisettico, antispasmodico, espettorante fluidificante, antibiotico, vermifugo, anticoagulante
Questa pianta ha la capacità di ridurre il colesterolo, aiuta a prevenire l’aterosclerosi, abbassa la pressione arteriosa, è indicato nelle infezioni delle vie respiratorie contro bronchiti e catarro; efficace contro i parassiti interni (vermi), nelle coronaropatie, ed abbassa anche la glicemia.
SALVIA
In passato alla salvia sono state attribuite numerose proprietà medicinali, molte delle quali confermate da recenti indagini scientifiche; non a caso il suo nome, che proviene dal latino “salvus” (salvo), le è stato attribuito perché ritenuta in grado di curare qualsiasi malattia.
Per la scuola medica Salernitana l’erba era ritenuta miracolosa per eccellenza, perché confortava i nervi, funzionava come antidoto negli avvelenamenti, guariva dalla paralisi e assicurava all’uomo una lunga e serena vecchiaia, per cui il nome “Salvia Salvatrix” (cioè salvia che salva) ha coniato la famosa frase “cur moriatur homo in cui salvia crescit in horto?” (Perché mai deve morire chi coltiva salvia nel proprio giardino?)
Un’altra delle sue proprietà, nella tradizione popolare, era di garantire fertilità alla donna.
Si racconta che in Egitto, nel 1500 a.c., nella città di Copto, decimata da un’epidemia di peste, fu distribuita alle donne sopravvissute, per garantire nuove progenie ai cittadini scampati; si narra infatti che in pochi anni la città si ripopolò.
Era considerata una panacea di tutti i mali anche presso i Celti, che la usavano per febbri, tosse, reumatismi, nonché per favorire il concepimento e il parto.
Odone di Meung (XI sec.) oltre a ritenerla utile per il fegato, le ferite e i pruriti delle parti intime, la consigliava per favorire le mestruazioni, eliminare il feto abortivo e persino per scurire i capelli, se spalmata in abbondanza e lasciata agire sotto il calore del sole.
Nella cucina medievale era utilizzata per correggere i difetti del vino, rendendolo più gradevole e digeribile e trova posto come aperitivo… «vinum inde conficiunt, quod salviatum vocant, quo plirimum uti solent in principio mensae» (Arnaldo da Villanova 1232-1312). Era utilizzata per insaporire oche e porcellini da cuocere arrosto; era anche un’ingrediente del solcio (insalata di carni di vario tipo praticamente marinate con aceto e erbe); altra preparazione medievale sono le frittelle fatte con pastella, secondo varie versioni, composta da farina, uovo, zucchero, cannella e zafferano.
Diversi studi hanno dimostrato che la Salvia riduce la traspirazione eccessiva e:
- è un efficace rimedio in molte affezioni ginecologiche: stimola, regolarizza il flusso e calma i dolori mestruali
- E’ digestiva e carminativa. Per la sua azione antispastica ed antisettica contribuisce a calmare il vomito, la diarrea e le coliche addominali e le affezioni del cavo orale come tonsilliti, faringiti. Produce un effetto coleretico, decongestionando il fegato e favorendo la digestione
- tonifica il sistema nervoso ed è perciò utile negli stati di depressione, astenia, ipotensione, tremori, vertigini o altre manifestazioni di squilibrio neurovegetativo.
In grandi quantità l’uso della Salvia è sconsigliato negli stati di irritabilità o di grande eccitazione nervosa, durante l’allattamento (inibisce la secrezione lattea) e la gravidanza (contrae l’utero), eccetto nell’ultimo mese.
L’essenza di Salvia, in dosi elevate, provoca convulsioni ed è tossica, per la presenza del tuione, quindi è controindicata per chi soffre di epilessia e ipertensione e chi usa preparati a base di ferro.
In cucina si usa per aromatizzare carni, legumi, pesci, paste
BASILICO
Erba aromatica delle Labiate (Ocimum Basilicum) originario dell’Africa tropicale, deve il suo nome al termine greco “Basilikos” che significa “regale”, che nasconde antichi significati simbolici contrastanti.
In India è considerato una pianta sacra consacrata a Lakshimi, sposa di Vishnù, dea della bellezza e armonia, invocata per propiziare la fertilità
Presso i Romani era ritenuta magica e sacra a Venere e come molte altre erbe, da raccogliere seguendo precisi rituali. Anche se c’era qualcuno che gli attribuiva poteri malefici, chi lo raccoglieva indossava abiti candidi e si purificava la mano destra con un ramo di quercia bagnato d’acqua di tre fonti diverse. Alcuni autori affermavano che non dovesse essere reciso con strumenti di ferro perché il metallo avrebbe annullato ogni sua qualità.
A Creta era simbolo di lutto, in Moldavia si usava far crescere sulle tombe, per poi raccoglierne i fiori che si credeva contenessero lo spirito del defunto
Il Boccaccio racconta nel Decamerone, novella V della IV giornata la storia di Lisabetta da Messina e della sua pianta di basilico.
La storia narra della giovane Lisabetta, nubile, che viveva con i suoi tre fratelli ricchi mercanti che avevano un giovane garzone di nome Lorenzo. I due si innamorarono ma l’amore era tenuto segreto, perché i fratelli non avrebbero approvato il loro matrimonio. Una notte però, uno dei fratelli la vide mentre si recava dal suo amato e così insieme agli altri, decisero di uccidere il giovane. Lisabetta non vedendolo più cominciò a domandare ai fratelli che fine avesse fatto, essi risposero che era fuori per delle commissioni. Una notte mentre piangeva affranta dal dolore, le apparve in sogno Lorenzo, che le rivelò il luogo dove era sepolto. L’indomani Lisabetta si recò sul posto, trovò il corpo dell’amato, allora gli staccò la testa con un coltello e la portò a casa, la mise in un vaso di basilico che annaffiava con le sue lacrime e così cresceva rigoglioso. I fratelli appresero dai vicini che la sorella passava le giornate a curare il basilico, glielo sottrassero e scoprirono la testa di Lorenzo. Nel timore di essere scoperti seppellirono la testa e se ne andarono lontano. La povera Lisabetta, privata della sua reliquia alla fine morì di dolore.
Al tempo dei romani era usato per ridurre la flatulenza, contrastare l’avvelenamento, come diuretico e per stimolare il latte materno.
Il basilico, assieme ad altre 16 erbe, faceva parte dell’acqua vulneraria, usata un tempo per applicazioni esterne.
Pier de Crescenzi (1235) nel suo De Agricultura, ne parlava così:
Contra il tramortimento et la passion di cuore….si dia il dianto (basilico) col vino; contra la freddezza dello stomaco o per la digestione….il vin de la decottion de fiori col mastice; contra dolor degli intestini e dello stomaco….si dia il vino della sua decottion et del comino
Anche ai nostri giorni le proprietà curative sono state riconosciute:
- antispasmodico gastrico (allevia gli spasmi gastrici, l’aerofagia, la flatulenza, le coliche e i disturbi digestivi di origine nervosa, come l’emicrania dovuta a cattiva digestione)
- tonico (Bagni e frizioni a base di essenza di Basilico hanno un’azione tonificante)
- stomachico
- carminativo
- galattogeno (aumenta la produzione di latte)
- espettorante fluidificante catarro.
Può essere usato per prevenire o ridurre nausea e vomito, ed aiuta ad uccidere i vermi intestinali.
Esercita una blanda azione sedativa, dimostrandosi utile nel trattamento di irritabilità nervosa, depressione, esaurimento, ansia e difficoltà nel dormire.
Inoltre, facilita le mestruazioni e diminuisce i dolori derivanti da spasmi e congestione uterina.
Applicate esternamente, le foglie di Basilico agiscono come repellente per gli insetti. Il succo ottenuto dalle foglie dà sollievo in caso di punture di insetti.
Il Basilico, conosciuto fin dall’età classica come medicinale, è entrato tardivamente nell’uso di cucina, sopratutto per pregiudizi e opinioni contrastanti trasmessi dall’antichità: come la credenza del suo legame con lo scorpione, cioè se si trita del basilico e lo si copre con una pietra, ne nasceranno scorpioni; e la puntura dello scorpione è sicuramente mortale per chi abbia mangiato basilico lo stesso giorno.
La cucina medievale lo impiegava per una salsa per il maiale, per colorare il brodetto verde e poco altro.
ROSMARINO
Conosciuto fin dall’antichità dai popoli del mediterraneo per le sue virtù terapeutiche e magiche, Rosmarinum officinalis, pianta aromatica delle labiate, il cui nome per alcuni deriverebbe dal latino “ros” che significa rugiada e dall’aggettivo “marino”, rugiada di mare, per altri dal greco “rops” arbusto e”myrinos” odoroso.
Ovidio, nelle Metamorfosi, narra la leggenda della principessa Leucotoe, figlia del re di Persia, che sedotta da Apollo, fu uccisa dal padre per la sua debolezza. Sulla sua tomba i raggi del sole penetrarono fino a raggiungere il corpo della fanciulla, che si trasformò nella pianta di rosmarino.
Da questa leggenda romani e greci lo consideravano pianta sacra e lo bruciavano nei templi oltre ad ornare le statuette dei lari; gli egizi mettevano i rami tra le mani dei defunti. A dirlo fu Prospero Alpino, medico botanico rinascimentale e autore di un libro sulle piante d’Egitto, e che sostiene di aver trovato egli stesso, essendo vissuto per tre anni in Egitto, un ramoscello di rosmarino in una tomba, chiuso in uno scarabeo di marmo.
Comunque in tutti i tempi ebbe un ruolo importante nelle cerimonie funebri e nuziali, forse perché nell’antica magia, tutte le piante odorose erano considerate efficaci nel proteggere contro gli spiriti maligni.
Non meno antico è l’impiego a scopo terapeutico come componente essenziale di unguenti, impiastri e profumi, citati da tutti gli autori dell’antichità.
Nel medioevo era conosciuto soprattutto per “L’Acqua della regina d’Ungheria”, a base di alcool, rosmarino e lavanda. Questo medicamento, secondo la leggenda, fu preparato da un eremita per la regina Elisabetta, sposa di Carlo Roberto D’Angiò re d’Ungheria. Si narra che soffrisse di dolori reumatici, usò il preparato per massaggiare gli arti che guarirono.
Da allora alcool e rosmarino vennero usati per curare reumatismi, gotta, affezioni cutanee, forfora e calvizie.
Nella cucina medievale, oltre ad aromatizzare le carni, era impiegato nella composizione di salse e insalate. Nel 1400 si propaga l’abitudine di iniziare i pasti con insalata di fiori di rosmarino poichè è gustosa e dispensa allo stomaco un calore confacente alla digestione e fa bene ai reumatismi. Il medico genovese A. Oderico nella seconda metà del XV sec. la raccomanda soprattutto d’inverno, quando ha una seconda fioritura.
Nelle salse è impiegato in una specifica “savore di rosmarino”, pestato nel mortaio con nocciole, mollica di pane, diluito con brodo e agresto (Anonimo Padovano 1475).
Anche ai nostri giorni le proprietà medicinali del Rosmarino sono state riconosciute:
- è eupeptico
- carminativo
- spasmolitico
- antibatterico
- colagogo
- coleretico
- digestivo.
E’ indicato, sotto forma di infusi ed altre preparazioni orali, nella digestione lenta e difficile, nel meteorismo e nelle coliche addominali, nelle indigestioni; come tonico nervino nell’astenia, nella perdita di memoria e nell’affaticamento mentale; riduce la produzione di colesterolo.
Le applicazioni del Rosmarino per via esterna, sotto forma di frizioni, fomenti o impacchi caldi, in caso di distorsioni, dolori muscolari e reumatici, per rilassare la muscolatura delle spalle e per calmare i dolori della regione cervicale, dorsale o lombare.
La pianta favorisce la cicatrizzazione di ferite, ulcerazioni della pelle ed eczemi; come gargarismo decongestiona le tonsille, come collutorio cura le afte orali.
I bagni e le frizioni esercitano un buon effetto stimolante in caso di ipotensione o di esaurimento fisico.
Viene usato in cosmetica nel trattamento delle pelli impure e dei capelli grassi.
In cucina si usa per aromatizzare carni, pesci, verdure, pane, focacce, vini, olio, aceto
La raccolta si effettua in primavera per le foglie, inizio estate per getti fioriti.
TIMO
Il nome Thymus ha origine dal greco thymos (thymós), che designava il principio della vitalità, il respiro , il cuore, che secondo i greci era sede delle passioni: l’ira, il coraggio e l’ardore. Thymós sta quindi ad indicare una esalazione di fumo (si bruciavano rametti di timo durante le funzioni religiose), ma anche il vigore fisico ed il coraggio che può infondere questa pianta: il suo aroma era infatti ritenuto dagli antichi greci apportatore di queste due virtù eroiche, tanto che i soldati tonificavano il corpo lavandolo con acqua di timo e rinvigorivano il proprio animo bevendone tisane.
Il timo era però ben noto fin dall’epoca degli Egizi, che lo usavano per la preparazione degli unguenti per l’ imbalsamazione, in quanto pensavano che l’anima dei morti potesse risiedere nei suoi fiori. Oggi ciò è spiegabile con la sua comprovata capacità di impedire la putrefazione e la proliferazione batterica, grazie agli olii essenziali in esso contenuti: infatti anche a distanza di 4.000 anni, a riprova del suo effetto antimicrobico, questa pianta continua a essere usata da imbalsamatori e tassidermisti.
Gli antichi Greci invece amavano consumare il miele che le api producevano visitando questa pianta, dando da bere agli invitati dei loro banchetti, prima del pasto, una coppa di vino aromatizzato con miele al timo ed altri ingredienti.
Al tempo dei Romani il famoso scrittore e filosofo Apuleio gli riconosceva spiccate proprietà antidolorifiche, come scrisse nel 148 a.C. nel suo Herbarium. Sia Plinio che Virgilio ne parlano invece come pianta da bruciare per scacciare gli animali velenosi dai campi e dalle case. Ancora i Romani sfruttavano le sue proprietà antisettiche per la conservazione delle derrate alimentari, per la purificazione dell’aria negli ambienti chiusi e per l’aromatizzazione di cibi e formaggi.
Nel Medioevo le nobildonne erano solite ricamare un ape che visita i fiori di timo sulle insegne dei loro cavalieri, come auspicio di buona sorte in battaglia. Inoltre un rametto della pianta veniva spesso messo sotto i cuscini, in quanto si riteneva potesse facilitare il sonno ed allontanare gli incubi. In quest’epoca, durante le funzioni funebri, si bruciavano rami di timo come l’incenso, per facilitare il passaggio alla nuova vita del defunto. Oltre ad essere usato nel mal di testa, nei dolori al ventre e al fegato, era considerato utile contro i vermi, serpenti e animali velenosi. L’odore che si sprigionava bruciandolo allontanava tali animali.
Santa Ildegarda lo consigliava anche nelle eruzioni cutanee.
È anche uno degli ingredienti dell’aceto dei 4 ladri. Nel 1630, durante una epidemia di peste a Tolosa, in Francia, vennero catturati dei ladri che derubavano i cadaveri. Il giudice volle sapere come mai non si ammalavamo e loro diedero la ricetta appunto di questo aceto, con cui si spalmavano il corpo.
Il timo ha proprietà:
- antisettiche
- carminative
- antispasmodiche
- balsamiche
- anticatarrale
- antibiotiche e toniche del sistema digestivo
L’azione antisettica, unita alle proprietà balsamiche ed espettoranti dell’olio essenziale, rende il Timo molto utile nelle affezioni dell’albero respiratorio come la sinusite, la laringite, la bronchite, i catarri bronchiali e l’asma. In questi casi si consiglia di prendere l’infuso o l’essenza, e inoltre di fare suffumigi ed inalazioni.
L’attività antispasmodica è alla base dell’impiego del Timo soprattutto come bechico nelle tossi secche e stizzose, nella tosse convulsa, nella pertosse.
Sul tratto genitourinario, le azioni antisettica, diuretica ed antispasmodica rendono la pianta efficace contro le cistiti.
A livello gastrointestinale, il Timo agisce soprattutto come antispastico, eupeptico e carminativo, quindi è consigliato per stimolare l’appetito e la digestione lenta. Inoltre tonifica il sistema nervoso centrale e, più in generale, l’intero organismo, ed è indicato in caso di esaurimento sia fisico (astenia, debolezza, ipotensione), che psichico (perdita della memoria, ansia, insonnia, depressione, irritabilità nervosa).
Usato esternamente per fare sciacqui del cavo orale, combatte le afte, la piorrea e la stomatite; sotto forma di gargarismi è molto efficace per curare la faringite e la tonsillite.
Applicato in lozioni o frizioni sul cuoio capelluto, riattiva la circolazione periferica, rinforzando i capelli e prevenendone la caduta, ed è particolarmente attivo contro pulci e pidocchi, se applicato sotto forma di frizioni esterne.
Si raccoglie a metà estate prima della fioritura.
Una quantità eccessiva di essenza, assunta per via orale, può causare irritabilità nervosa e mancanza di coordinamento motorio.
Il Timo è controindicato durante la gravidanza e l’allattamento.
In cucina si usa per minestre, ripieni, verdure, carni, pesci, cacciagione.
MENTA
Mintha era il nome della ninfa figlia del dio dei fiumi Cocito, amata da Plutone e trasformata in pianta dalla dea Proserpina, compagna di Plutone. Proserpina, scoprendo l’amore di Plutone per la ninfa, in un impeto di gelosia la trasformò in una pianta poco vistosa ed esteticamente poco significante, relegandola a crescere vicino al fiume paterno, però, per non sdegnare del tutto Plutone, la dea permise che la pianta possedesse qualcosa di piacevole: il profumo emanato da ogni parte del suo corpo.
Così la mitologia greca e romana volle onorare la fama di questa pianta non bella nell’aspetto ma dal profumo ineguagliabile e dalle virtù medicamentose ben note fin dall’antichità.
Già Ippocrate medico greco vissuto dal 460 al 377 a.c., la raccomandò come afrodisiaca, mentre Plinio (23 – 79 d.c.) enumerò le sue molteplici proprietà esaltandone il profumo che eccitava l’animo e il sapore che stimolava l’appetito
Pier de Crescenzi (1235) la consigliava:
…contro fetor de la bocca, gengive e denti si lavino i denti con l’aceto ove sarà cotta la menta, appresso si freghino con le foglie di menta secche. Contra il vomito si cuocia la menta in acqua salmastra e in aceto et intintovi una spugna si ponga alla bocca dello stomaco
Santa Ildegarda la prescriveva per gli effetti digestivi e per favorire l’evacuazione.
Odone di Meung la consigliava per i problemi di stomaco, contro i vermi, nella cura delle orecchie, per i morsi dei cani.
Comunemente veniva usata sotto forma di impiastri per curare il mal di testa, il gonfiore delle mammelle dopo il parto, dolori auricolari e molte malattie della pelle, mentre per uso interno come vermifugo, afrodisiaco, stomatico.
In cucina era utilizzata in certa salsa verde, qualche agliata e la «salsa de menta sola» (cioè menta pestata nel mortaio con pane raffermo, pepe, aglio e diluita con agresto, inoltre era mescolata ad insalate o messa nei tortelli).
Per le sue proprietà carminative, antisettiche, digestiva, analgesica, stimolante sistema nervoso, anche ai nostri giorni è un aiuto in caso di problemi digestivi, quali dispepsia e meteorismo. È consigliata in caso di cefalee ed emicranie. Inoltre, in virtù delle sue proprietà stimolanti sul sistema nervoso centrale, può essere un utile rimedio contro l’astenia e l’esaurimento fisico.
Per uso esterno, le frizioni con essenza di Menta diluita in olio o con alcool mentolato (essenza di menta al 3% in alcool) alleviano nevralgie, dolori reumatici ed articolari, grazie all’azione revulsiva dell’olio essenziale, mentre l’aspersione di talco mentolato attenua il prurito cutaneo per il potere anestetico del mentolo.
L’olio essenziale, diluito in olio o alcool al 5-6%, può anche essere applicato come antisettico e vulnerario su ecchimosi, contusioni, eczemi, foruncolosi, ascessi, ulcere, scabbia e punture di insetti.
Infine, l’essenza di Menta piperita può essere inalata a scopo disinfettante e mucolitico in caso di affezioni dell’albero respiratorio, come raffreddori e bronchiti.
L’essenza, assunta in dosi elevate per via interna, può causare insonnia ed irritabilità, mentre per inalazione può indurre laringospasmo nei bambini ed in soggetti sensibili; è un eccitante del sistema nervoso centrale, quindi non dovrebbe essere somministrata di sera, né utilizzata come correttivo del sapore in tisane distensive, perché può indurre ansia, insonnia ed irritabilità.
Per l’effetto anestetico che produce sulla pelle, viene utilizzata in cosmetica nelle creme, tonici doposole o antiarrossamento. Sul viso il tonico di menta ha azione rinfrescante, tonificante e astringente. Presente anche nei dentifrici.
In cucina si usa per insalate, frittate, salse, gelati, liquori, sciroppi.
ALLORO
L’alloro, dal celtico “lauer” sempre verde, nell’antica Grecia era una pianta sacra ad Apollo.
Le qualità dell’alloro sono infinite, come infinito e fantastico è il suo mito.
Ovidio racconta, nella saga di Apollo e Dafne, che il dio del sole si era perdutamente innamorato della Ninfa Dafne, figlia del dio fluviale Penèo. Ma il bellissimo dio, non era corrisposto dalla Ninfa; infuriato, non le dava pace. Dafne, esasperata dalle continue avances del dio, e sfinita dalle fughe per sottrarsi all’insistente Apollo, chiese implorando l’aiuto di Penèo, che impietosito decise d’aiutare la figlia. Dafne fu pervasa da un pesante torpore, e a poco a poco si trasformò in albero.
Apollo dichiarò sacra questa pianta, facendola diventare simbolo di pazienza, gloria e trionfo. Il dio stabilì inoltre, cingendosi il capo con ghirlande fatte di fronde d’alloro, che tutti i mortali che si fossero distinti per atti eroici avrebbero potuto fare altrettanto. Fu così che nelle prime olimpiadi del 776 a.C. i vincitori vennero incoronati con l’alloro.
In età romana, corone di alloro cingevano il capo dei sommi, quali poeti, consoli, letterati, imperatori, e tutt’oggi il termine “laureato”, con il quale viene insignito chi porta a termine un percorso di studi universitari, deriva da questa pianta aromatica.
A Delfi le foglie di questa pianta venivano masticate dalle sacerdotesse oracolanti, dette Pizie, e nella tradizione popolare la dafnomanzia ha rappresentato a lungo una forma di vaticinio.
Come pianta divinatoria per trarre auspici, presso i romani si bruciavano foglie di alloro e se queste crepitavano indicavano buona fortuna, in caso contrario predicevano sorte avversa.
Presso i Celti, invece, vi era l’usanza di percuotere le donne con fronde di Alloro, miste a strisce di pelle, per dare loro la fecondità nella notte di San Valentino.
Nel medioevo, il botanico de’ Crescenzi diceva:
…foglie e rami sono ottimi per conservare i fichi secchi et per metter nella gelatina acciocché essa sia odorifera e in qualunque luogo si mettano a cuocere confortano stomaco e cervello. E quando si bee della corteccia o delle granelle d’un peso di una dramma e mezzo, rompe la pietra e ammazza il fanciullo in grembo alla madre per la sua amarezza […] e dato vino fa
prò al morso dello scorpione et è buona alle vespi et alle api quando pungono et bevuta è tiriaca a tutti i veleni
Nella cucina medievale era impiegato nella preparazione delle gelatine, e Mastro Martino (e altri) tramanda una ricetta di frittelle (foglie fritte nello strutto, fatte asciugare, messe in pastella fatta con farina, uova,zucchero cannella e zafferano poi fritti nuovamente nello strutto “frictellae ex lauro”).
L’Alloro, di cui si utilizzano sia le foglie che le bacche, è stimolante dei succhi gastrici, ha proprietà antisettiche utili contro cattiva digestione e meteorismo; l’infuso caldo ha un’azione sudorifera, utile in caso di influenza e raffreddore. Si può usare per il pediluvio ed è efficace contro i reumatismi.
L’infuso aiuta la digestione e combatte i dolori dello stomaco e l’inappetenza. Utile in caso di dolori reumatici, distorsioni e slogature facendo delle frizioni con l’olio essenziale.
In cucina utilissimo per aromatizzare piatti di carne, salse e intingoli..
MAGGIORANA (ORIGANUM MAJORANA)
Pianta aromatica appartenente alla famiglia delle labiate. Simile all’origano nell’aspetto e nel sapore, si differenzia da quest’ultimo (che è una pianta spontanea), dal fatto che la maggiorana prospera solo se viene coltivata. A questo proposito, in Liguria viene chiamata “persa”, proprio per indicare il rischio di scomparire quando inselvatichisce.
La leggenda narra che è stata molto amata da Afrodite, che è stata la prima a coltivarla e proprio perché preferita dalla dea dell’amore, le ragazze greche ne mettevano un rametto sotto il cuscino, per vedere in sogno il volto del futuro marito.
Nell’antica Grecia veniva prescritta contro i morsi dei serpenti e per calmare i dolori artritici.
Dioscoride la descriveva come pianta per ringiovanire il sistema nervoso, lo stomaco e l’ intestino.
I romani scoprirono la sua efficacia come digestivo, inoltre attribuivano all’erba la capacità di guarire le contusioni, alleviare i crampi mestruali, trattare la congiuntivite e altre affezioni dell’occhio.
Alla pianta si attribuivano anche proprietà magiche. Si pensava allontanasse spiriti maligni e streghe e rendesse inefficaci maledizioni e incantesimi tenendone appeso in casa un rametto secco. Durante la nascita di un bambino, per proteggerlo dagli spiriti maligni, si spargeva sul davanzale della finestra cumino e maggiorana.
Nella cucina medievale è frequentemente abbinata a prezzemolo e menta, erbe impiegate per colorare di verde i cibi.
Pier de Crescenzi la raccomanda per lo stomaco e la digestione., e posta sopra il capo per il mal di testa.. Nota curiosa del botanico:
…i topi volentieri fanno noia alle sue radici, perciocché essi cercano di guarire con queste dalle loro malattie
Oggi le sue proprietà riconosciute sono le seguenti:
- antispasmodica
- carminativa
- digestiva
- efficace contro la flatulenza, gli spasmi addominali e la digestione pesante, nell’insonnia, nelle cefalee di origine nervosa e vertigini.
In cucina si usa per insaporire ripieni, condimenti, frittate, carni, si aggiunge a crudo o a fine cottura perchè cotta a lungo perde molto del suo aroma.
LAVANDA
Il nome lavanda ha origine dal verbo latino “lavare” e si rifà all’antica usanza di utilizzare la pianta per l’igiene e la bellezza personale; già gli antichi romani aggiungevano fiori di lavanda all’acqua dei loro bagni pubblici per profumarne l’acqua e sfruttare le sue proprietà antisettiche. Si estraevano gli oli essenziali sia per uso cosmetico che per uso medicinale per le sue proprietà toniche e distensive.
Si usava mettere i fiori di lavanda nei vestiti per profumarli e proteggerli dalle tarme. Questo uso è giunto fino a noi, infatti si utilizza ancora per profumare la biancheria e come anti tarme.
Nel medioevo la Scuola Salernitana la consigliava per la cura della paralisi, mentre S. Ildegarda proponeva il vino di lavanda oltre che per i problemi al fegato e ai polmoni, anche per assicurare «all’uomo una pura scienza ed una chiara intelligenza».
Ebbe anche fama di contrastare la peste
La lavanda ha le seguenti proprietà:
- sedativa
- antispasmodica
- antifermentativa
- antisettica
- antiputrefattiva
La Lavanda per le sue proprietà sedative e riequilibranti del sistema nervoso centrale può, quindi, essere consigliata, sotto forma di infusi ed altre preparazioni per uso interno, in caso di nervosismo, tensione, ansia, insonnia, palpitazioni e, in generale, di malattie psicosomatiche; in caso di bronchiti, laringiti, tosse e pertosse.A livello dell’apparato gastrointestinale, l’attività antispasmodica, antiputreffativa e carminativa la rendono efficace in caso di dispepsia, colite ed altri disturbi digestivi. L’infuso favorisce la guarigione di ulcere e ferite infette.
Applicati esternamente, l’acqua, l’olio, e l’essenza di Lavanda sono molto efficaci per calmare i dolori reumatici, di origine sia articolare che muscolare, come i dolori artrosici del collo o della schiena, l’artrite gottosa, il torcicollo e la lombaggine e , l’olio allevia il dolore nelle bruciature leggere e lenisce le irritazioni dovute a punture di insetti.
In seguito a lunghe camminate, dopo un intenso esercizio fisico o quando si avverte una grande stanchezza, un bagno caldo con acqua o essenza di Lavanda aiuta a riattivare la circolazione e ad eliminare la sensazione di affaticamento.
Si raccolgono le sommità fiorite in estate prima della fioritura.
MELISSA
Conosciuta anche come cedronella, per il suo gradevole odore di limone, il nome deriva dal latino “Melissophillum” che a sua volta deriva dal greco “Mèlisse” – ape e “phyllon” – erba. Erba gradita alle api.
Virgilio e Columelle raccomandano agli apicultori di tritarne le foglie e spargerle sulle pareti degli alveari perché il profumo attiri gli sciami a primavera. Anche Varrone riferisce di alveari circondati da piantagioni di melissa. Oltre che in apicoltura, era impiegata nella confezione di ghirlande.
In molte civiltà con il termine “Melissa” venivano chiamate le donne considerate molto sagge e virtuose. Le sacerdotesse dei misteri di Eleusi ed Efeso erano dette “melisse” perché nei riti di iniziazione si lavavano mani e bocca col miele quale auspicio di purificazione di parole e azioni.
Era nota per usi terapeutici già dai medici arabi nel X e XI secolo. Il suo olio essenziale era usato dagli arabi per rinforzare cuore e cervello come scriveva Avicenna nel XI sec.:
la melissa dispone la mente e il cuore all’allegria
Durante il medioevo furono attribuite a questa pianta una quantità smisurata di proprietà curative e tonificanti.
L’acqua di melissa prodotta dalle suore Carmelitane francesi, sembrava capace di curare molti disturbi, da problemi quali coliche e indigestione a cefalea, artriti, mal di denti, e piaghe.
Nella cucina del medioevo trova impiego in una sola ricetta di frittelle amare.
Per le sue proprietà sedative, antispasmodiche, carminative ed ha anche un’azione insettifuga, è indicata nei casi di eccitazione, ansia, insonnia, stress e cefalee di origine nervosa; è un efficace rimedio contro flatulenza, nausea, vomito, spasmi, coliche addominali e dolori mestruali. Applicata esternamente, la Melissa disinfetta le ferite promuovendone la cicatrizzazione e combatte la formazione dei funghi della pelle.
L’olio essenziale di Melissa, infine, riscuote un discreto successo come insettorepellente.
Si raccoglie in estate, foglie e fiori.
ORTICA
Il nome ”urtica” deriva dal verbo latino “urere”, che significa “bruciare”, a causa dei suoi sottili peli urticanti.
In realtà il tipico bruciore causato dalle foglie di ortica sulla pelle è indicativo delle doti curative di queste che aumentano l’ossigenazione con la vasodilatazione locale.
Ippocrate (460-377 aC), il padre di tutti i medici, cita svariate volte i semi di ortica nei suoi scritti. Anche altri autori e medici dell’antichità hanno elogiato le virtù terapeutiche di questa pianta. Un’eccellente raccolta di tutte le piante officinali note a quell’epoca ci è stata tramandata dal guaritore greco Pedanio Dioscoride (circa 40-80 dC) che fu medico militare sotto gli imperatori romani Claudio e Nerone. Dioscoride ha descritto circa 600 piante officinali, il loro contenuto, i loro effetti e le loro applicazioni, fornendo istruzioni precise per la preparazione e il dosaggio. La sua Materia medica comprendeva tutte le piante usate nell’antichità. Quest’opera è uno dei libri più importanti dell’antichità e sia in medicina che in farmacia era considerata un’autorità assoluta. Quasi tutti gli erbari popolari del medioevo si basavano sull’opera di Dioscoride. Riguardo all’ortica ha scritto:
le foglie sotto forma di cataplasma col sale curano i morsi di cane (rabbia), la cancrena, le ulcere maligne, distorsioni ed ascessi. Ai malati di milza vengono applicate con unguento di cera. Le foglie, tagliate e messe a bagno nel succo, servono anche contro l’epistassi. Bere il decotto di foglie con mirra favorisce le mestruazioni. Il seme, bevuto con vino di zibibbo favorisce il coito e apre l’utero
A Roma l’ortica era un afrodisiaco molto in voga. I suoi semi venivano usati per tutti i filtri d’amore. Ovidio ci ha tramandato questa ricetta:
Mescolare anche il pepe con il seme di ortica
Si riteneva che anche le frizioni con le ortiche fresche aiutassero contro l’impotenza. Lo stesso Ovidio consigliava una miscela con miele, cipolle, uova e pinoli.
Petronio consigliava di fustigare reni e natiche per chi difettava di virilità e salute, pratica rimasta in voga fino a tutto il1800.
Ildegarda di Bingen consiglia di usare le foglie fresche di ortica come contorno alla carne o farle cuocere perché
L’ortica è a modo suo molto calda. A causa della sua ruvidezza non serve affatto mangiarla cruda. Ma quando è fresca e appena cresciuta dalla terra, se viene cotta è utile per i cibi dell’uomo, poiché purifica lo stomaco e ne elimina il muco. Ogni tipo di ortica ha questo effetto
Il succo di ortica aiuta la debolezza di memoria, infatti dice:
Chi si trova ad essere smemorato contro la propria volontà prenda delle ortiche, ne sprema il succo, gli aggiunga un po’ d’olio di oliva e quando va a dormire lo usi per ungersi il petto e le tempie, lo faccia ripetutamente e la smemoratezza si ridurrà
Dai fusti delle piante di ortica si ricavavano fibre tessili simili alla canapa. Nel medioevo la fibra tessile era utilizzata in varie parti d’Europa ed il suo impiego sembra risalire all’età del bronzo. Poi l’uso di questa fibra tessile vegetale venne trascurato per un periodo piuttosto lungo, per essere poi riscoperto nel primo dopoguerra. Prima della grande commercializzazione dei tessuti in cotone, l’ortica veniva molto usata come fibra tessile sia in Germania che in Finlandia, ma anche in Austria e in Italia.
È anche un colorante per i tessuti: le foglie tingono di verde, le radici di giallo.
L’ortica ha proprietà antianemica, rimineralizzante, depurativa e diuretica, ideale per pulire stomaco, intestino e sangue. È astringente utile in caso di diarrea, colite o dissenteria o emorragie intestinali, come lozione per pelli grasse; arresta le perdite di sangue dal naso (batuffolo di cotone bagnato nel succo della pianta); è un ottimo antiforfora, rinforza il cuoio capelluto. Antireumatica usata come cataplasma o tisana.
Il periodo migliore per la raccolta delle foglie è dalla primavera all’autunno, mentre le radici si raccolgono in autunno.
È ottima anche in cucina bollita come normali verdure, in frittate, zuppe, risotto, salsa verde per lesso, ripieno per ravioli, pesto. Nella cucina medievale era utilizzata soprattutto per torte e tortelli.
TARASSACO
Più conosciuto come Dente di Cane, Dente di Leone, Soffione, Piscialletto, il nome probabilmente deriva dal greco “Tarakè” che significa “scompiglio” e “àkos” che vuol dire “rimedio”.
I medici arabi nel X sec furono i primi a riconoscerne le proprietà diuretiche.
La medicina cinese aveva scoperto il tarassaco da millenni e lo prescrive come cura di bellezza per rendere luminosa la pelle e limpidi gli occhi.
I medici indiani lo consigliavano nella cura di epatiti, ulcere e problemi dentari
Nel medioevo gli erboristi iniziarono ad apprezzare le sue proprietà depurative.
Ha proprietà diuretiche e depurative contro problemi di fegato, colecisti, colesterolo nel sangue, acidi urici, diabete e ritenzione idrica –
Antiscorbutico e vitaminizzante. Ha un’azione schiarente sulla pelle e il succo fresco o decotto si utilizza per attenuare le efelidi e le macchie della pelle in genere.
In cucina si usa crudo in insalate o cotto in frittate, ripieni e i boccioli non dischiusi si possono conservare sott’aceto o in salamoia come i capperi.
La raccolta del rizoma e delle foglie si effettua dalla primavera all’autunno
MALVA
Il nome malva deriva dal greco “malàche” con significato di “sciogliere” e “malàssein”, “ammollare” per le sue proprietà emollienti.
Conosciuta dai Latini per le sue proprietà medicinali e commestibili, è stata decantata già nel VIII secolo a.c. quando i suoi germogli erano presentati sulle mense dei dignitari.
Di pietanze a base di malva ne parla Pitagora e sosteneva che dovesse essere mangiata ogni giorno per purificare la mente e calmare la passione.
Plinio diceva che bere ogni giorno un bicchiere e mezzo del suo succo, non avrebbe fatto ammalare di nessuna malattia.
Dioscoride consigliava cataplasmi di foglie di malva e foglie di salice per guarire le ferite.
Marziale la usava come antidoto alle sue notti brave e la consigliava a chi avesse problemi di stitichezza.
Orazio l’accompagna alla cicoria e Apicio la consacra nella cucina ricca, pur essendo cibo contadino e popolano, dedicandole due ricette: insalata di malva mescolata ad altro come lattuga, porri, menta e rucola oppure olive e cicoria.
Continuiamo a ritrovare la malva nei secoli successivi, e la Scuola Salernitana la loda «perché risana il corpo».
Carlo Magno ne aveva reso obbligatoria la coltivazione nei giardini medicinali del suo regno.
Nel medioevo era consigliata da mangiare in insalata perché >ammorbidisce il ventre, guarisce la renella e rompe il calcolo>.
Secondo Odone di Meung il succo era utile per curare le punture delle api; unito all’olio e spalmato sul corpo era efficace per allontanarle. Il decotto curava il fuoco sacro e le ustioni.
La Malva è antinfiammatoria ed emolliente di tutte le mucose. Il decotto è ottimo rimedio contro gli ascessi dentali e congiuntiviti.
L’infuso contro infiammazioni delle vie respiratorie, irritazioni delle bocca, gastrite, colite.
Come cataplasma contro foruncoli, varici e flebiti
È anche utilizzata nei prodotti di bellezza per la sua azione antiarrossamento, antinfiammatoria, emolliente in creme per le mani, prodotti solari, dentifrici, colluttori.
In cucina si utilizzano le foglie aggiunte alle insalate, o in ripieni per ravioli e polpette, zuppe, frittate.
Si raccolgono le foglie in primavera, i fiori da maggio a settembre
ALTEA
Il suo nome deriva dal greco “Althain” che significa curare.
Conosciuta come Malvone o Bismalva, per la sua somiglianza alla malva (appartiene alla stessa famiglia), è conosciuta e usata da 2500 anni.
Prima di essere usata come medicamento, era consumata come alimento. Se ne fa menzione del libro di Giobbe (30,4) dove indica una pianta, tradotta come altea, che serviva come alimento durante le carestie.
Anche durante il medioevo, quando i raccolti erano scarsi, le radici di Altea venivano bollite e poi fritte insieme alle cipolle.
Ippocrate, come erba officinale, prescriveva un decotto di radici per trattare contusioni ed emorragie secondarie a ferite. Dioscoride raccomandava impiastri di radice per morsi o punture di insetti, un decotto per mal di denti e vomito, nonché come antidoto contro i veleni.
Plinio il vecchio scriveva:
chiunque prende un cucchiaio colmo di Altea, per quel giorno sarà libero da malattie
Nel X sec. i medici arabi usavano cataplasmi di foglie per le infiammazioni
Nel 1600 l’erborista Culperer la utilizzò per curare il proprio figlio affetto da un male incurabile per la medicina di allora; in seguito a ciò ne esaltò l’utilizzo per le sue proprietà curative.
Per la sua proprietà emolliente e bechica è indicata nelle irritazioni di bocca e gola, nelle infiammazioni gastro- intestinali, nelle cistiti, foruncolosi ed ascessi.
In cosmetica viene usata nelle varie creme idratanti, latte detergente, per mani screpolate, pelli secche.
In cucina ha gli stessi impieghi della malva.
La raccolta si effettua in autunno per le radici (da seccare), fine aprile per le foglie ed i fiori ad inizio fioritura.
CAMOMILLA
Gli antichi Greci la consideravano una panacea; pare che la sua fragranza, simile al profumo delle mele mature, abbia assegnato il nome alla camomilla, infatti nell’etimologia “khamaìmelon” significa mela di terra o piccola mela, da qui successivamente il latino “chamomilla”.
Già conosciuta dagli antichi egizi, pare fosse usata per curare le sindromi febbrili e le febbri della malaria.
Sia il medico greco Dioscoride che il naturalista romano Plinio la consigliavano come rimedio per problemi renali ed epatici.
Nel Medioevo veniva coltivata non solo come uso medicinale, ma bensì per difendere l’orto da eventuali malattie, per rinvigorire le piante deperite.
Una consuetudine in quei tempi, era quella di cospargere quest’erba sul pavimento o di bruciarla lentamente sulla brace del camino, questo sarebbe servito per allontanare le infezioni di varie malattie infettive e della peste, inoltre si appendevano ciuffi di camomilla sulle culle dei neonati per conservarli da possibili malattie epidemiche e difenderli dalle forze malvagie.
Durante il medioevo fu utilizzata in Germania e in Inghilterra come rimedio di numerose affezioni e per secoli l’Ungheria è stato il principale Paese di produzione della camomilla.
Un’altra tradizione di quel periodo era quella di lavarsi con l’acqua di camomilla, un filtro d’amore per le giovani innamorate, per attirare la persona amata, ma come molte erbe magiche, la raccomandazione era di raccoglierla durante la notte di San Giovanni prima della mezzanotte, per evitare che le streghe vi urinassero sopra.
Per le sue qualità sedative, antispasmodiche, digestive, è consigliata nei casi di insonnia nervosa, anche nei bambini, nei dolori di ventre e coliche epatiche, ne calma il dolore ed accelera la digestione.
È anche febbrifuga ed emmenagoga e infatti si usava nelle febbri intemittenti da malaria e per facilitare il mestruo e calmare i dolori.
IPERICO
Il nome Iperico deriva dal greco “Iper” che significa “sopra” e “Eicòn” che vuol dire “immagine” dove la stessa vuole dire “spettro, fantasma, demone”. Lo stare sopra all’immagine quindi, indica la facoltà di allontanare dagli uomini tutte le presenze incorporee. E’ chiamata anche erba di S. Giovanni.
È un’erba perenne con fiori giallo oro sulla sommità dei rami; le foglie, viste in controluce presentano delle ghiandole traslucide che sembrano piccoli fori, i petali se si strofinano tra le dita, secernono del liquido rosso.
Per questa caratteristica, nell’antichità si immaginava fosse stata generata dal sangue e nella tradizione cristiana da quello di Giovanni Battista a cui l’erba è dedicata.
In molti paesi durante i falò di S. Giovanni si portavano in capo corone di iperico che venivano poi gettate nel fuoco per propiziare i raccolti e la salute del bestiame.
Rametti si gettavano nei focolari durante i temporali per proteggere la casa, o legata nelle culla evitava scambi di neonati.
Al di là dell’uso superstizioso o magico, alla pianta sono state riconosciute virtù curative importanti.
Plinio la consigliava per favorire le mestruazioni, per i dolori articolari e le scottature.
Nel medioevo era apprezzata per la sua proprietà vulneraria, capace di accelerare la guarigione di ferite facendole cicatrizzare presto.
Gli Ospedalieri di S. Giovanni, cavalieri monaci, la usavano durante le crociate per risanare le ferite e la portavano sempre con loro, probabilmente sotto forma di olio, per curare i pellegrini nel lungo cammino verso la Terra Santa.
Oggi, oltre alle sue qualità cicatrizzanti, è considerata una pianta antinfiammatoria, antidolorifera ed antisettica.
Come antidepressivo, usato nei disturbi di natura psicovegetativa, malumore, malinconia, ansia, insonnia, agitazione nervosa.
Per uso esterno l’olio, chiamato olio rosso, si usa per frizioni in caso di sciatica, artrite e reumatismi.
Cataplasma di fiori freschi per cicatrizzazione di piccole ferite o piaghe.
In cosmetica l’infuso combatte gli arrossamenti della pelle appassita dalla vecchiaia, mentre l’infuso nel bagno è tonificante.
LE SPEZIE
FIENO GRECO
È una pianta medicinale (Trigonella Foenun Graecum) conosciuta già dall’antichità. Gli Egizi la citano nel papiro di Erbers (1550 ac) e la usavano sia per scopi religiosi e curativi riconoscendole proprietà ingrassanti, galattogene e antielmintiche.
Era nota anche a Ippocrate (460-377 ac), Dioscoride (I sec), Plinio (23-79) e Columella con il nome di Silieula. Dioscoride raccomandava il fieno greco come emolliente mescolato a olio d’oliva, Calamo e Cipresso. La medicina araba conosceva la pianta (col nome di Holba) e la urilizzava per i suoi effetti ingrassanti e antidiabetici.
Fu introdotto in Europa dall’Oriente nel IX e nei Capitolari di Carlo Magno compare tra le erbe che dovevano essere coltivate negli orti.
Ildegarda di Bingen (1098-1179) vantò l’efficacia dei semi come diuretici, emollienti e anticatarrali, e più tardi A. Mattioli (1501-1577) ne confermò l’efficacia.
Era coltivata negli orti dei monaci Benedettini e la usavano nel trattamento di malattie renali, epatiche, febbri e intossicazioni.
Usata fino al 1800 e poi caduta in disuso.
Gli effetti antidiabetici dei semi di Trigonella, furono descritti da F. Fournier nel 1948 e da Nadkarnis nel 1954. Questi risultati hanno stimolato nuove ricerche portando a individuare altri principi attivi di questa pianta.
Ha azione galattogena, cioè aumenta la secrezione del latte; per l’azione epatoprotettivo è indicato nelle dispepsie, nella stitichezza cronica e nelle forme infiammatorie dello stomaco e dell’intestino; ha proprietà adipogene, ricostituenti, cioè aumenta l’appetito, utile nei casi di magrezza.
In cosmesi viene usato contro l’invecchiamento della pelle.
In cucina si abbina con carni di manzo o agnello, verdure, risotti e lenticchie. E’ uno degli ingredienti del curry.
PEPE CUBEBE
Originario dell’Indonesia. Il nome deria dall’arabo “kababa”.
Nel quarto secolo a.C., Teofrasto accenna ad una spezia, il “komakon”, usata insieme alla cannella come ingrediente in miscele aromatiche.
Nel medioevo arriva in Europa dall’India attraverso il commercio con gli arabi; divenne una delle spezie più usate e diffuse.
Nel libro le mille e una notte (che dovrebbe essere del X secolo) il cubebe è nominato come un rimedio per l’infertilità.
Nel XIII secolo Marco polo descrive Giava come la maggior produttrice di Cubebe.
Nel XIV secolo è stato portato in Europa da commercianti di Rouen e Lippe, con il nome di pepe. Ma intorno al 1640, dice John Parkinson nel suo Teatrum Botanicum, il re del Portogallo ne avrebbe proibito la vendita per favorire il pepe nero, e da allora il suo uso è declinato fino a scomparrire quasi del tutto.
Si differenzia dal pepe nero, per il rametto attaccato alla bacca. Il suo uso alimentare oggi è rimasto solo in Indonesia, luogo di produzione.
PEPE NERO
Il pepe è il frutto di un arbusto rampicante originario del Malabar, regione dell’ India, che produce piccole bacche verdi (rosse a maturazione), da cui si ricavano 3 prodotti: pepe nero , ottenuto raccogliendo le bacche prima della maturazione, fatte leggermente fermentare e poi essicare cosi che il tegumento superficiale diventi raggrinzito e si scurisca; il pepe bianco si ottiene decorticando quello già essicato; e ultimo diffuso da alcune decine di anni, quello verde, acerbo.
Un’altra piperacea affine è il pepe lungo (piper longum) – sempre di origine indiano- che ha frutti simili a piccole spighe composte da piccoli semi, e si fanno seccare come il pepe nero.
Fu probabilmente il pepe lungo il primo ad essere portato all’ovest arrivando in Mesopotamia già nel 2000 a.c., dove pare fosse la spezia più richiesta, poi raggiunse il mediterraneo grazie ai Persiani ed ai Fenici.
Dopo la conquista dell’Egitto da parte di Roma nel 30 d.C., la traversata dell’oceano indiano fino alle coste del Malabar era abbastanza diffusa.
Dettagli di questa rotta commerciale attraverso l’oceano indiano ci sono stati tramandati dal Periplus Maris Erythraei noto col nome di Periplus, una guida per timonieri per navigare nell’Oceano Indiano.. Secondo il geografo romano Strabone, (n. 63 a.c. – m. 24 d.c.) ogni anno, dal primo Impero, partiva una flotta di circa 120 navi per un viaggio in India, seguendo l’itinerario descritto dal Periplus.
Il pepe nero era molto conosciuto e diffuso nell’Impero Romano, anche se era molto costoso. Apicio nel De re coquinaria, un libro di cucina del III secolo basato almeno in parte su uno del I secolo, inserisce il pepe nella maggioranza delle ricette. Edward Gibbon scrisse nel libro The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, che il pepe era «l’ingrediente preferito nella più esclusiva cucina romana».
Marziale, VII, 27, è «contento che l’amico Destro gli abbia regalato un cinghiale, ma è atterrito dal mucchio di pepe che il cuoco userà per cucinarlo».
Secondo Plinio il vecchio, nella Naturalis Historia, fornisce una lista di prezzi delle spezie: Il pepe nero era più economico 4 denari alla libbra , mentre il pepe bianco costava quasi il doppio; una libbra di pepe lungo 15 denari; Una libbra di zenzero 6 denari; una libbra di cannella da 5 a 50. La paga di un soldato era di 225 denari annui, mentre un bracciante guadagnava circa 2 denari al giorno.
I proventi daziari del pepe erano così cospicui da giustificare alla fine del I° sec. d.c. la costruzione di depositi pubblici (horrea piperatoria) per custodirlo, ed una strada per accelerarne il trasporto dallo scalo marittimo di Pozzuoli fino alla capitale (la via Domiziana).
Il pepe era una merce pregiata, era chiamato l’oro nero ed usato come moneta di scambio.
Alarico, re dei Goti, nel 408 assediò la città di Roma ed il Senato inviò delegati a negoziare il riscatto. In cambio delle loro vite e della fine dell’assedio, Alarico consentì ad accettare cinquemila libbre d’oro, 30.000 talenti d’argento, quattromila vestaglie di seta, tremila teli di tessuto finissimo rosso scarlatto e 1.400 chili di pepe.
Nel medioevo il commercio del pepe era monopolizzato dalla Repubblica di Venezia e la Repubblica di Genova.
È comune credenza che nel medioevo il pepe,e le spezie in generale, fosse usato per nascondere il sapore della carne parzialmente andata a male; non vi è alcuna evidenza che supporti questa diceria e gli storici ritengono questo altamente inverosimile, in quanto la carne era venduta fresca ed era conservata attraverso l’affumicatura, la salatura, o essiccata. Nel medioevo il pepe era un genere di lusso che poteva essere comperato soltanto da gente facoltosa che poteva comperare carne fresca a volontà.
Pier de Crescenzi, nel suo Trattato de Agricultura, dice che il pepe ha virtù di dissolvere e conservare, «la sua polvere posta al naso provoca lo sternuto e mondifica il cerebro […], la sua polvere data coi fichi conforta la digestione».
La scuola salernitana attribuisce al pepe proprietà mediche diverse a seconda del colore della spezia:
dissolvente non leggero e tardo è il pepe nero, che la flemma fa sparire ed il cibo digerire. Al ventriglio il pepe bianco e al dolor giova del fianco; della febbre presto e bene moti e brividi previene
Dioscoride, Galeno e gli altri medici gli riconoscevano molteplici proprietà: diuretico, stimolante dell’appetito, digestivo, calmante dei dolori.
Il suo alto costo ne fa un segno distintivo della cucina raffinata, tanto che non vi è ricetta nel De re coquinaria che non ne preveda l’uso anche abbondante.
ZENZERO
Nativo del Sud-est asiatico, lo Zingiber officinalis, di cui si utilizza il tubero bitorzoluto, è una pianta tropicale perenne conosciuta da tempi remoti.
Mentre nell’antico Egitto si erigono le prime piramidi e si sperimenta la tecnica della mummificazione, in Cina lo zenzero è già conosciuto e usato per le sue proprietà benefiche, tanto che l’mperatore Shen Nung, letteralmente “il contadino divino” celebre per le sue grandi conoscenze in campo agricolo e in materia di erbe officinali (ne avrebbe assaggiate parecchie centinaia), nonchè ideatore del tè, lo cita ne Il classico delle erbe, un trattato sulle erbe officinali redatto cinquemila anni fa.
Le virtù curative erano note anche nell’antica Grecia (citato dal medico e filosofo Galeno nel I secolo d.C.) e nell’impero romano (esaltato da Dioscoride, medico degli imperatori Claudio e Nerone, e presente in molte ricette di Apicio).
A Roma al tempo di Plinio, si vendeva a 6 denari per libbra. La radice si commerciava secca (da grattuggiare o pestare) o conservata sotto miele per preservare la sua freschezza.
Per preservare i rizomi freschi più a lungo possibile, durante il trasporto, si interravano le piante nei vasi. Lo zenzero così fresco era assolutamente il migliore, ma raggiungeva costi proibitivi.
Nel medioevo era ricercato come antidoto contro la peste. Sia in Cina, sia nell’ Arabia Berbera, veniva trasportato sulle navi dentro dei vasi per utilizzarlo come cibo fresco per i marinai e contro lo scorbuto. Hildegard von Bingen, nel libro Physica descrive in modo preciso e poetico oltre 175 erbe aromatiche e spezie; nelle sue ricette per il corpo e l’anima raccomanda lo zenzero per curare stipsi, occhi annebbiati, dolori di stomaco, macchie della pelle ecc., ma curiosamente lo sconsiglia ai sani che diventerebbero fiacchi e dissoluti.
lo zenzero in Europa era già presente nei menu di epoca medievale e rinascimentale.
Insieme a pepe e zafferano, costituiva la triade aromatica esotica maggiormente utilizzata nella cucina medioevale. Esiste una ricetta invernale chiamata “Gengeverada” a base di latte di mandorle e pangrattato e «un poco de gengero ma non troppo, che non sia troppo forte», zucchero e zafferano.
Ha proprietà antiemetiche, stomachiche, antinfiammatorie e antiossidanti.
Azione antinausea e antivomito: questa pianta ha una interessante azione antinausea e antivomito, sia per la nausea gravidica che la nausea di che soffre il mal di mare o l’auto.
Azione anti-infiammatoria: come preventivo e curativo in pazienti con crisi di cefalea ricorrente.
Azione protettiva sullo stomaco: gastrite e gastroduodenite.
L’ utilizzo in cucina è variegato, si usa nei dolci, nelle focacce, biscotti, nei piatti di carne, nelle bevande come il Ginger Ale.
È uno degli ingredienti del curry.
CANNELLA
Questa spezia è forse una delle più antiche, usata ancora oggi sotto forma di piccole canne o bastoncini. Il nome, dalla forma a piccola canna che assume quando è essiccata per la conservazione, indica la parte interna della corteccia dei rami giovani di due anni, (incisa e staccata, lasciata macerare 1 gg. per togliere la cuticola esterna, poi seccata 3 gg. all’ombra e 2 al sole) di diverse piante: il “Cinnamomum zeylanicum” e il “Cinnamomum cassia”.
La prima di color nocciola chiaro, dall’aroma penetrante ma delicato, è chiamata “cannella vera”, “cannella regina” o “cannella di Cylon”, ed è sempre stata molto più pregiata della “cassia”, che è la cannella cinese di colore bruno rossiccio dall’aroma più forte.
La cannella vanta una storia millenaria, era già usata dagli antichi Egizi nel 3000 a.C. per le imbalsamazioni.
Gli erbari cinesi la menzionano nel 2700 a.c. come trattamento per febbre, diarrea, problemi mestruali, utilizzata per gli stessi trattamenti anche dai medici indiani.
Viene pure citata nella Bibbia, nel libro dell’Esodo, quando Dio ordina a Mosè di consacrare il Tempio con un misto di sostanze aromatiche.
Nel bacino del Mediterraneo la cannella era nota per il suo alto valore già nell’epoca classica, e lo stesso Plinio ne lamentava il prezzo esorbitante, infatti il suo costo variava da 5 a 500 denari alla libbra.
Durante il Medioevo era uno dei costosi doni che i nobili facevano a re e regine come simbolo di prestigio.
I suoi principi terapeutici servivano per curare tosse e mal di gola.
Santa Hilegarda la raccomandava nel XII sec. come ”spezia universale per la sinusite, oltre che per raffreddori, influenze e cancro” e ”deperimento interno e umore vischioso”, ma lo sconsigliava a chi avesse tendenza ad ingrassare.
Secondo la Scuola Salernitana, questa spezia spingeva i giovani all’amore.
Per le sue qualità aromatiche la spargevano a profusione su ogni pietanza dolce o salata, rendendola immancabile nella cucina di corte, assieme al pepe.
Questa spezia era ingrediente sia della famosa salsa “camellina” (ricetta di Guillaume Tirel dit Taillevent, Le viander), sia delle “verte souce”, citata nel ricettario di re Riccardo II d’Inghilterra (XIV sec.).
La camellina nei ricettari ha molte versioni diverse, in alcune è presente zucchero, in altre uva passa ma l’ingrediente principale è la cannella, poi zenzero, garofano, grani del paradiso, pepe, mollica di pane bagnata con aceto o vino
Gli egizi la usavano tra l altre erbe nel processo di imbalsamazione.
In cucina si utilizza nella preparazione di dolci, e nei sottaceti.
Proprietà terapeutiche:
- tonica
- carminativa
- astringente
- digestiva
- aromatizzante
- stomachica.
Utile nelle malattie da raffreddamento, ha effetto astringente nella diarrea, è utile nell’indigestione, nell’inappetenza, nel reumatismo, nei dolori addominali, promuove la traspirazione togliendo la sensazione di freddo.
CHIODI DI GAROFANO
Questa spezia è una delle più antiche e costose, conosciuta in Cina già oltre 2000 anni fa. E’ il fiore raccolto in bocciolo e disseccato di Eugenia Caryphyllus albero alto fino a 15 mt.
E’ menzionata in antichi testi indiani e Plinio il Vecchio la cita quale merce di importazione nel 70 d.C.
Durante la dinastia cinese Hang (207 a.c. al 220 d.c.), chi si rivolgeva all’imperatore doveva tenere in bocca chiodi di garofano per mascherare l’alito cattivo.
Nella tradizione medica cinese e indiana, lo usano da sempre per problemi digestivi, ernie, diarree e infezioni fungine, nonché affezioni respiratorie e digestive.
Nel medioevo la scuola Salernitana considerava questa spezia una sorta di panacea. Allora molto costosa, valeva «tre volte più del pepe» ed era associata al lusso più sfrenato: Nella Divina Commedia vi è un riferimento di Dante nell’Inferno (canto XXIX, vv.127-128). «Niccolò che la costuma ricca del garofano prima discoperse», riferita ad un personaggio identificato da alcuni in Niccolò de Salimbeni e altri in Niccolò Bonsignori, appartenenti entrambi all’aristocrazia senese, cui, si dicesse facessero uso sconsiderato del garofano: pare che li “bruciasse a sacchi per arrostire fagiani sulle loro brace”.
Il Bonsignori, fu podestà a Padova dove si fece ricordare a lungo per i sontuosi banchetti e le profusioni di garofano.
Fa parte di molte ricette medievali per insaporire starne, fagiani e altri tipi di selvaggina.
La badessa Hildegarda di Bingen lo consigliava per la cura della gotta. Veniva consigliato contro il mal di testa e mal di denti.
Anche la medicina moderna li utilizza nei disinfettanti orali e come analgesico nelle carie dentarie.
I chiodi di garofano, mescolati a lavanda e artemisia in parti uguali, tengono lontane le tarme dagli abiti.
In cucina è usata nella preparazione di panpepati, arrosti e formaggi stagionati, selvaggina, brodi di pollo e gallina, stracotti, salmì, biscotti, creme, dolci alla frutta e per aromatizzare liquori e vini.
È stato accertato che ha proprietà antibatteriche, antifungine, antinfiammatorie.
È indicato nelle infezioni da funghi cutanee, infezioni delle bocca e dei denti, infezioni delle vie respiratorie.
È controindicato in gravidanza e nell’allattamento e va usato con prudenza nei malati di fegato.
CUMINO
Originario dell’Iran e delle regioni Mediterranee, pianta delle ombrellifere, presenta semi simili al finocchio, è menzionato nella Bibbia, sia nel Vecchio Testamento (Isaia 28:27) la parabola del contadino e della semina, che nel Nuovo (Matteo 23:23). Il Cumino è stato usato fin dall’antichità, nell’antica Grecia lo tenevano a tavola in contenitori (come oggi abbiamo il pepe) e nell’antica Roma. Sono stati ritrovati semi nel sito siriano di Tell ed Der, fatti risalire al II millennio avanti Cristo. Altri ritrovamenti sono stati nell’antico Egitto dentro le tombe dei faraoni. Gli egizi lo usavano come rimedio contro la tosse, mal di pancia.
I romani lo utilizzavano per le sue proprietà digestive, contro nausea e imbarazzi di stomaco (Plinio, XIX, 160)
Apicio ne utilizzava moltissimo nella sua cucina, in graduatoria era al quarto posto, su 16 condimenti aromatici che più usava, dopo ligustico, menta e cipolle.
Nella cucina medievale si usava in qualche salsa, nelle gelatine e pesce.
Santa Ildegarda consigliava il cumino contro la nausea “perché di colore moderato e secco che serve ad asciugare gli umori responsabili della nausea”.
Pier de Crescenzi nel suo trattato De Agricoltura, dice che il cumino:
ha virtù diuretica, e onde preso ne mangiare e nel bere conforta la digestione. Il vino della sua decottione e di fichi secchi e semi di finocchio mitiga il dolore e i torcimenti delle budella
Proprietà terapeutiche:
- antisettico
- antispasmodico
- digestivo
- antifermentativo.
Indicato nella cattiva digestione, stimola l’appetito, contro coliche e crampi addominali, elimina i gas intestinali.
Nella medicina popolare si utilizza per aumentare la secrezione lattea e calmare i dolori mestruali.
In cucina si usa per aromatizzare le vivande, sia carni che verdure, e per preparare liquori, ed è un ingrediente del curry.
CORIANDOLO
Erba aromatica delle ombrellifere (Coriandrum sativum), originaria del Mediterraneo orientale.
La parola coriandrum deriva dal greco “corys” (cimice) seguito dal suffisso “ander” (somiglianza) in riferimento alla somiglianza dell’odore di questo insetto con quello acre emanato dallo sfregamento delle foglie.
È conosciuto anche come prezzemolo cinese o erba cimicina. Delle piante si usano i frutti chiamati erroneamente semi, sono palline marroncini simili al pepe come grandezza.
Secondo Plinio il vecchio, mettendo alcuni semi sotto il cuscino, era possibile prevenire la febbre e far sparire il mal di testa. Apicio ne fece la base di un suo condimento chiamato Coriandratum.
Nella medicina mesopotamica veniva usato contro le coliche intestinali e i dolori di stomaco.
Gli Egizi lo utilizzavano per realizzare unguenti erpetici e lo offrivano come erba votiva.
Nel medioevo l’uso del coriandolo si ritrova in diverse fonti; nei trattati di Ildegarda, nel capitolare carolingio De Villis in cui si indicavano le erbe che dovevano essere coltivate.
I frutti del coriandolo venivano caramellati (confetti) e serviti a fine pasto nei pranzi di nozze «per frenare le fumosità che tendono a risalire dallo stomaco alla testa» (facilitare la digestione).
Pier de Crescenzi, nel suo trattato De Agricultura, dice:
A confortar la digestione e il dolor dello stomaco per ventosità si dia il suo seme in mangiare o in vino della sua decottione […] la polvere del suo seme fa buon sapore sparso sopra le carni da mangiare
In cucina si utilizza nei salumi, piatti di carne e pesce ed è ingrediente del curry e del «garam masala» una miscela di spezie molto usata in medio oriente.
Ha proprietà antispasmodiche e antisettiche, ed i semi usati nel pediluvio risultano efficaci per piedi stanchi e gonfi.
NOCE MOSCATA
Originaria delle Molucche, diffusa in Malesia e Indonesia, è il frutto della ”Myristica fragrans” albero sempreverde (può raggiungere i 20 mt di altezza) che produce due spezie: la noce moscata e il macis, un reticolo di colore rosso che la avvolge ed il cui sapore è un mix di cannella e pepe. La noce prima di essere utilizzata viene sottoposta a tostatura.
Fu diffusa nel mediterraneo intorno al XII secolo d.c. non si sa se dai crociati o da mercanti arabi (che la conoscevano da centinaia di anni commerciando con l’India) ed era usata sia in cucina che in medicina.
Per Ildegarda di Bingen, nei suoi libri di erboristeria, è una pianta che ha effetto benefico sull’organismo ed è l’ingrediente fondamentale dei suoi biscotti.
Quando l’imperatore tedesco Enrico VI Hoenstaufen, padre di Federico II, venne incoronato re di Sicilia, il 25 dicembre 1194 nella cattedrale di Palermo, come simbolo di ricchezza venne bruciata noce moscata.
Quando i portoghesi nel 1512 scoprirono dove si produceva la noce moscata se ne impossessarono per averne il commercio esclusivo e vi furono lotte sanguinose contro gli olandesi che a loro volta volevano la supremazia del commercio. Riuscirono a strapparlo ai poprtoghesi nel 1621.
Utilizzata in cucina per aromatizzare minestre, ripieni, dolci, carni.
Stimola la digestione, blocca le fermentazioni intestinali, attenua nausea e vomito.
Se ingerita in dosi massicce causa allucinazioni e convulsioni e per questo nel ‘900 venne chiamata ‘lo stupefacente dei poveri’
La tradizione popolare le attribuisce poteri afrodisiaci. Nell’800 venne usata come stimolante erotico, unita ad altre spezie, nella preparazione delle ‘Pillole dell’amore’.
ZAFFERANO
Fino al medioevo era chiamato croco, poi gli arabi lo cambiarono in ”za’faran”, derivato dal persiano ”sahafran” (giallo).
E’ la polvere aromatica ricavata dagli stami di Crocus Sativus, pianta perenne che si sviluppa da un bulbo. Gli stami si staccano manualmente dai fiori raccolti al mattino. Per 1 kg di zafferano occorrono ca. 450.000 stami.
Cresce selvatico in Italia, Grecia e Spagna.
Nell’Asia Minore vi sarebbe stato coltivato già nel II millenio a.c. Il papiro di Ebers del 1550 a.c. conferma che le sue proprietà terapeutiche erano già conosciute agli egizi.
Ippocrate lo consigliava per i reumatismi, la gotta e il mal di denti. Plinio (XXI, 31-32) dice che il migliore è quello selvatico e che non conviene coltivarlo per la vastità richiesta dalla sua coltivazione e si importa dalla Cilicia (Turchia) quello di prima qualità, poi dalla Licia e dalla Sicilia. Alla caduta dell’impero romano il suo uso scomparve. Sopravvisse nell’impero di Bisanzio e nei paesi arabi che ne ripresero la coltura in Spagna intorno al VIII sec. ed ebbe un grande sviluppo a partire dal XI sec.
Secondo Pier de Crescenzi
il croco è caldo e secco nel primo grado, et però confortativo, onde val molto contra la debolezza e il mancamento di cuore. Lieva dagli occhi il rossore et le macchie se trito con rose et con tuorlo d’uovo, vi si pon sopra, come dice Dioscoride.
Anche un medico della Scuola Salernitana, Costantino Africano, dice che ”la proprietà sua è in letificare il cuore
Nella cucina medievale era utilizzato per colorare le vivande di un bel giallo oro, dalle salse alle minestre.
Si usava anche per tingere i panni di lino, seta e lana e anche per dipingere.
Nel XIV sec. si coltiva in Toscana, Abruzzo e Marche. Il suo prezzo a Milano negli anni 1385 -1390 è di 11 soldi a oncia (il doppio del pepe e 12 volte più della carne di bue); a Firenze 22 soldi e a Pisa 25.
I pistilli si trasportavano in sacchi di cuoio ed erano gli speziali a ridurlo in polvere.
Per le sue proprietà terapeutiche è un rimedio utile cin caso di dispepsia, insonnia, crampi allo stomaco e mestruazioni dolorose.
GALANGA
Appartiene alla famiglia delle zingiberacee. Si divide in Galanga maggiore (Alpinia Galanga) originaria dell’Asia Sud Orientale (Malacca e Sumatra) e presenta radici di oltre 2 cm, rossastre e chiare all’interno, ed ha un sapore più dolce.
La Galanga Minore è nativa della Cina, le radici sono grosse meno di un dito, rosso-brunastre anche internamente ed un sapore più aromatico.
Ildegarda di Bingen usava la galanga nella cura per il cuore; inoltre era usata per le malattie infiammatorie e intestinali.
Nella cucina medievale era utilizzata nelle salse (peverade), in alcune gelatine, e nella miscela di spezie dolci, di cui facevano parte pepe, zenzero, noce moscata, cannella, chiodi di garofano e zafferano. Era, inoltre, uno degli ingredienti del vino dolce chiamato Ippocrasso.
L’attuale ricerca ha confermato le proprietà antinfiammatorie, antibatteriche, antitumorali, antivirali, antimicotiche. È quindi utile in caso di problemi digestivi, nausea, gas intestinali, cancro ai polmoni e alla mammella, abbassa la pressione ed anche in caso di infezioni fungine.
In cucina si usa, ridotta in polvere, per i risotti, pesci, zuppe, carni rosse, pollo, salse e verdure.
GRANI DEL PARADISO
I Grani del Paradiso, chiamati anche ”di Malagetta” o ”Pepe di Guinea”, sono i semi dei frutti di Aframomum Melegueta, pianta originaria dell’Africa occidentale, dal sapore pungente e pepato che ricorda zenzero e cardamomo.
In Europa comparve nel XII secolo, dopo aver raggiunto il mediterraneo con le carovaniere del Sahara.
In Francia ebbe immediato successo e venne utilizzato in alternativa al pepe.
Nella cucina medievale si usava per speziare birra e vino, compare anche in qualche ricetta per l’Ippocrasso, e in alcune ricette di salsa camellina.
Ha proprietà stimolanti e diuretiche, è meno irritante del pepe, ma un abuso può provocare disturbi intestinali e allo stomaco.
Con il tempo il suo utilizzo è andato via via sparendo, rimanendo nel suo paese di origine.
ERBORISTERIA
ACHILLEA
È conosciuta anche con il nome di millefoglie, erba pennina, ciglia di venere, molto diffusa nei prati o lungo i sentieri.
Secondo quanto tramandatoci da Dioscoride (I sec. d.c.), il guaritore Chirone raccontò ad Achille le proprietà cicatrizzanti della pianta e si narra che Achille la utilizzò per curare le ferite di Telefo durante l’assedio di Troia,
in seguito a questo, come racconta Plinio il Vecchio, venne chiamata Achillea.
Le sue proprietà curative erano note sin dall’antichità. Dioscoride nel suo De materia Medica la cita per la cura delle ferite. Galeno (II sec. d.c.) parla della pianta che è usata per ristagnare il sangue, la diarrea ed il flusso delle donne.
Nel medioevo oltre alle proprietà già citate, viene utilizzata per curare il mal di denti, tumori, difficoltà urinarie.
Questo si trova nei testi medici Anglo-Sassoni come il ”Bald’s Leechbook” del IX sec. in cui spiega che si mastica per il mal di denti, si fa bollire nel vino con la piantaggine quando non si riesce ad orinare, si beve con l’aceto per la digestione, e si usa in unguenti da applicare su ferite e bruciature.
Anche nel ”Libro rosso di Hergest” del XIV sec. l’utilizzo della pianta è per febbre, problemi urinari, vermi, sanguinamenti dal naso, vomito, dolori al seno, ferite.
Si continuò ad usare, per le sue proprietà cicatrizzanti fino al 1800.
Le sostanze amare e l’olio essenziale che contiene la rendono un rimedio utile per digerire, stimolare l’appetito, è antispasmodica e antinfiammatoria, inoltre l’Achillea ferma le emorragie interne ed esterne (usando il decotto della pianta per le ferite).
GINEPRO
Il ginepro è, probabilmente, originario dell’Asia, nella regione del Tibet, da dove si sarebbe diffuso. È un arbusto perenne a portamento cespuglioso alto fino a 4 mt.
Nel papiro di Ebers (1550 a.c.) si parla del ginepro e si utilizzava come diuretico.
Dioscoride parla di un vino al ginepro per digerire.
Nell’antichità Greci e Latini usavano bruciarlo durante le cerimonie ed era considerato simbolo di fertilità.
Nel medioevo, Ildegarda di Bingen, lo considera un rimedio per curare le crisi respiratorie e l’asma bronchiale, preparando un elisir cuocendo nel vino le bacche insieme a fiori di verbasco e polvere di dragoncello; nella cucina medievale si preferiva bruciarne il legno durante la cottura delle carni allo spiedo, perché l’aroma del legno impregnava la carne aromatizzandola.
In quel periodo si moltiplicarono le leggende sul ginepro: si cucivano foglie di ginepro negli abiti perché servissero da talismani, si appendevano rametti nelle stalle a protezione degli animali e sulle porte di casa per tener lontane le streghe; inoltre se il latte stentava a diventare burro, il rimedio era usare un mestolo di legno di ginepro. Ma più di ogni altra cosa veniva bruciato per purificare l’ambiente soprattutto in caso di malattie infettive, infatti si pensava che il fumo aromatico avesse il potere di purificare l’aria e di prevenire la peste e la lebbra.
In cucina si usa per aromatizzare le carni, specie la selvaggina. Costituisce la base del gin, bevanda alcolica inventata dagli olandesi nel XVII secolo.
Oggi sono state riconosciute le sue proprietà curative per disturbi dell’apparato respiratorio (asma e catarro bronchiale); ha un’azione diuretica; per uso esterno è indicato contro tendiniti, artrite, reumatismi e gotta facendo frizioni con la tintura delle bacche o con l’olio essenziale diluito in olio di mandorle dolci.
In cosmetica è usato per bagni tonificanti.
SAMBUCO
Era considerato una pianta magica delle fate. I popoli germanici lo chiamavano ”albero di Holda”, perché Holda, una fata benigna, abitava nei sambuchi che crescevano vicino ai fiumi.
Nelle tradizioni popolari di vari popoli era considerata pianta protettiva contro malattie, serpenti e incantesimi.
Si riconoscevano alla pianta anche proprietà divinatorie: se i fiori in estate erano gialli o color ruggine, in casa sarebbe nato un figlio; fiori piccoli e sottili indicavano siccità, mentre fiori grandi segnalavano un buon raccolto.
Nel medioevo, nell’area del mediterraneo, con il legno di sambuco si costruirono Madonne nere, spesso custodite nelle cripte di chiese che avevano sostituito antichi luoghi di culto della Madre Terra.
Il nome sembra derivi dal greco ”Sambukè”, parola che indicava uno strumento simile ad una piccola arpa costruito con i rami di sambuco. Anche flauti e zufoli erano spesso costruiti con questo legno, svuotato dal midollo biancastro
Secondo Plinio mangiare foglie di sambuco con olio e sale era indicato per contrastare la collera e la flemma; che l’acqua di cottura delle foglie, sparsa per casa uccidesse le mosche; che il vino preparato con le foglie servisse contro i morsi dei cani, mentre l’acqua in cui maceravano i gambi depurasse la casa delle pulci.
La Scuola Salernitana consigliava di usare l’olio di sambuco contro le scottature. Pier de Crescenzi nel suo ”De Agricultura” indicava un vino preparato con la corteccia per combattere la febbre e provocare le mestruazioni, mentre il decotto in acqua salata era per curare l’infiammazione dei piedi.
La cucina medievale utilizzava i fiori di sambuco per preparare le frittelle, un impasto con formaggio fresco, farina, albumi, zucchero e fiori e fritti nello strutto o nel lardo. Il 18 giugno 1360 al monastero fiorentino di Santa Trinita si acquistano 15 libbre di ”sugnaccio di porcho fresco pele frittellette sambuchate” insieme a uova, latte, cacio e zucchero, tutto il fabbisogno per la preparazione. I fiori erano usati anche per minestre e torte (con il consiglio di preparare l’impasto da versare nella sfoglia abbastanza spesso così che i fiori non cadano sul fondo).
I fiori di sambuco hanno proprietà galattogoghe (aumentano la secrezione del latte), sudorifere, emollienti, antispasmodiche, che sono utili in caso di tosse, raffreddore e bronchiti. È diuretico (privo di controindicazioni anche se usato per lungo periodo)
Per uso esterno i fiori sono utili in caso di stanchezza e gonfiore degli occhi, acne, arrossamenti della pelle.
In cosmetica si utilizzano per le proprietà emollienti, lenitive, toniche e schiarenti.
È bene ricordare che le bacche acerbe, le foglie e corteccia fresca ad alte dosi sono tossiche: provocano bruciori alla gola, diarrea, vomito, crampi. Le foglie e fiori freschi se strofinati sulla pelle provocano eritemi e irritazioni.
FINOCCHIO
Il finocchio era chiamato ”maratro” nel medioevo, e deriva dal termine greco ”marathon”, nome della località di Maratona, dove gli ateniesi sconfissero i persiani nel 490 a.c., e che significa ‘’campo di finocchi” perché questa pianta nasceva spontanea nella pianura da dove parti il leggendario messaggero che compì i 40 km di corsa che lo separavano da Atene.
In Mesopotamia era utilizzato per curare dolori di stomaco e per le sue virtù diuretiche, mentre Plinio lo consigliava per la cura della vista.
In base alla ”dottrina dei segni”, i fiori gialli del finocchio erano posti in relazione con la bile del fegato, anch’essa gialla, e per questo si raccomandava per curare l’itterizia. Carlo Magno, per questo motivo, ordinò nei suoi capitolari che fosse coltivato in tutti i giardini erboristici dell’impero.
La Scuola Salernitana lo consigliava come carminativo ed eccitante se bevuto col vino.
Ildegarda di Bingen lo prescriveva per raffreddori e raucedine; Odone di Meung lo usava per patologie dei reni, dei polmoni e stomaco; lo suggeriva per calmare i dolori del ”membro virile” e bevuto col vino per stimolare ”l’attività amorosa”.
Il succo delle radici, mescolato a miele, si spalmava sugli occhi per togliere oscurità alla vista.
Nell’antichità da sempre il finocchio è una pianta legata al serpente e nel medioevo diventa simbolo del demonio ma, nello stesso tempo viene considerata protettiva contro streghe, vermi e veleni.
Una credenza popolare, nell’antichità, voleva che i serpenti dopo il letargo invernale, grazie all’umore del finocchio, ripulissero la loro pelle e rinforzassero la vista indebolita dal lungo sonno sfregandosi contro la pianta. Secondo altre tradizioni, la pianta usata dal serpente generava al suo interno un verme nocivo che se ingerito provocava la morte. Alcuni proverbi popolari mettono in guardia da questa sventura: ”Dio ci guardi dal malocchio e dal vermine del finocchio” o secondo un detto marchigiano ” meio perde un occhio che magnà no’ verme de lo finocchio”.
Per provocare sogni divinatori si spargeva attorno al letto o sotto il cuscino assieme ad altre erbe.
Nel medioevo i tavernieri poco onesti lo usavano per mascherare il sapore del vino poco buono. Infatti, ai clienti veniva servito del finocchio fresco o insaccati profumati al finocchio prima di portare il vino, così la dolcezza del finocchio addolciva la bocca e il sapore del vino era mascherato.
Oggi il finocchio, per le sue proprietà carminative si usa nella cura del meteorismo e flatulenza e turbe digestive
(diarrea, coliche, cattiva digestione). Attenua l’alitosi e aumenta la secrezione del latte. Esternamente trova applicazioni nelle affezioni oculari.
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